Introduzione tratta dal libro Giuseppe Beretta imprenditore di umanesimo e moderità
Fondazione Cab
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Vi è un valore morale nel passato e, parafrasando Carl Becker, la storia insegna a controllare non la società, bensì noi stessi preparandoci a vivere più umanamente il presente.
Evocare la Brescia di un tempo, di quel savoir - vivre delle grandi famiglie imprenditoriali non può non portare alla mente il nome Beretta. Nelle vicende delle dinastie industriali si riassumono i caratteri distintivi di una città, la disponibilità all´accoglienza, il liberalismo, la cultura. La storia dell´industria bresciana per antonomasia, la più prestigiosa e antica appare come una mappa d´orientamento per il presente e una guida per il futuro. Per Giuseppe Beretta (da molti chiamato Piergiuseppe, per gli intimi Pino) nato a Gardone Val Trompia il 16 giugno 1906, il capitalismo doveva fondersi con un sistema culturale. Tenne sempre fede a questa regola perché, coerente con un´etica calvinista, sapeva che l´imprenditore capace d´innovare è colui che, attraverso i beni guadagnati, è in grado di generare anche la ricchezza dello spirito. Infatti si sa che la storia del libero mercato ruota attorno alla pulsione continua dell´innovazione e pur astenendosi dall´impegno politico attivo, Giuseppe Beretta ebbe un ruolo incisivo nelle istituzioni, ribadendo quel particolare profilo imprenditoriale che gli fece sostenere idee e progetti lungimiranti, molti realizzati, altri purtroppo rimasti sulla carta. Coltivò altresì la passione per il teatro e la lirica, la musica una sorta di anima mundi, l´unico legame che salda e armonizza l´umanità.
Le numerose cariche istituzionali rivestite nell´arco di una vita lunga e produttiva ne confermano la curiosità. Lo spirito del viaggiatore non si discostava dagli interessi imprenditoriali sebbene questi non fossero mai l´unico fine esclusivo del suo ricercare, innovare. Le preoccupazioni per il futuro armiero lo portò ad espandere, dopo l´incredibile successo che sostituì nel gennaio 1985 le Colt nelle fondine dell´esercito americano con la Beretta modello 92 F, l´outdoor, il settore delle armi sportive, in una specialità nella quale il padre Pietro era stato campione di tiro, impegnandosi altresì nel sostenere strenuamente la caccia. Aveva del suo ruolo imprenditoriale un fortissimo senso di responsabilità. A grandi privilegi corrispondono gravosi obblighi, questa era la voce della sua consapevolezza; ricerca del bene, competenza e serietà nel dirigere, senso del sociale, rispetto della dimensione umana dell´impresa.
Nonostante la sua discrezione e sobrietà, il dottore, diffondeva un alone di severa dolcezza. Dissimulava con pudore lo spleen di una tristezza che nasceva dall´obbedienza, dalla consapevolezza di avere un destino già prestabilito, e non solo dal fato. Quella presa di coscienza gli fece assumere il proprio compito rinunciando ad un sogno che portò sempre con sé.
Fu un vero maestro di saldi principi e modello di un capitalismo sano che doveva fondersi e far progredire non solo l´economia, ma altresì un progetto culturale, considerando sempre gli uomini al di sopra delle logiche d´impresa.
Il suo orizzonte ultimo fu una sorta di utopia da terzo millennio, un imprenditore che tentò di coniugare umanesimo e modernità. Coltivò sulla scorta dell´eredità paterna una micro società, definirla di stampo "paternalistico" è forse riduttivo in quella Gardone Val Trompia dove teatro, cinema, albergo, asilo, scuole e case portano il nome Beretta. Un amore radicato nella sua Valle dove cercò di fondare la misura del benessere sociale su di un principio di frugalità appagata di cui lui fu sempre convinto assertore. Nello studio di via Tosio le poltrone in cuoio su cui faceva accomodare i suoi interlocutori erano délabré; un vezzo o, preferibilmente, un monito inequivocabile non solo dell´usura del tempo, ma della sua postura esistenziale.
Se la medicina non ha annoverato tra le sue fila uno studioso illuminato, come rimase anche in età avanzata un suo intimo desiderio, di certo ne ha giovato una pagina importante e tra le più significative dell´imprenditoria bresciana e mondiale.
La ricostruzione per capitoli della vita e dell´opera di un capitano d´industria è un atto di memoria. E´ il desiderio di far rivivere il suo operato, l´umanità dapprima della persona e poi dell´industriale e del mecenate, in una breve biografia del tutto inedita con risvolti intimi e toccanti, di rara sensibilità. Descrivendo la personalità e le tappe fondamentali della vita di Giuseppe Beretta, ci viene restituito il quadro di un´epoca e di un intenso periodo storico che ha caratterizzato tutto il Novecento.
Ricordare, come ci indica l´etimo stesso, non ha a che vedere solo con la memoria ma è un atto d´amore. Grazie alla testimonianza della moglie, Anna Catturich, a fianco non solo nella vita ma anche nel lavoro, il profilo di Giuseppe Beretta, esponente di quella borghesia colta e riservata che ha fatto migliore Brescia, assume i toni di un testamento spirituale. Dalla sua fonte inesauribile di ricordi, ciò che ci accingiamo a leggere non è solo la vita di un imprenditore ma è, a tratti, l´identità stessa della nostra città. Di una parte migliore di essa.
Un ultimo regalo della sua proverbiale generosità.
Introduzione tratta dal libro Il solco della memoria, edizioni OGE
Bihor, provincia del nord-ovest della Romania. Ma anche Bucarest, capitale e centro politico-culturale del paese. Pero' non oggi, ma nel dopoguerra, a nazione gravitante in orbita sovietica, quando essa vede la graduale calata della notte comunista. E' questo il tempo del romanzo d'esordio di Emanuela Zanotti, gia' nota giornalista e apprezzata autrice di saggi, che lega in se storia e memoria: storia di popoli ma anche di singole persone; memorie ideologico-politiche ma anche di sentimenti. A un ricevimento di ancora possibile, se pure ormai spacciato lusso altoborghese (siamo a meta' degli anni quaranta e il destino della Romania e' segnato), il segretario del principe padrone di casa, un giovane italiano di nome Achili, incontra Niza, una misteriosa ragazza di origini e costumi transilvani. Non c'e' che il tempo di una promessa, piu' tacita che altro e pronunciata con le silenti parole del cuore. La vicenda bellica che imperversa in tutta Europa piomba sulle loro vite come un turbine di vento su un mucchio di foglie. Ma se le fisiche presenze si disperdono, non cosi' le anime, anche se Achil dovra' scontare una terribile prigionia in un lager russo (dove tra l'altro e' oggetto di sperimentazioni psichiatriche) e se Niza, dal canto suo, rimarra' nella capitale per terminare i suoi studi di medicina. La Zanotti non avrebbe scritto questo romanzo se i due giovani fossero destinati a perdersi totalmenete di vista. Ma il finale e' talmente imprevisto e struggente da non esigere parola alcuna di anticipazione. Obbligo segnalare, invece, quella che non saprei definire se non come arte descrittiva (ormai persa nella romanzeria corrente), che tra paesaggi di una natura francamente inedita, retroterra esistenziale dei personaggi, slarghi storici appropriati, dinamico e funzionale punteggio conoscitivo di tutta una cultura a noi non lontana ma di difficile appropriazione, ci mette in grado di visitare una terra di straordinaria bellezza e di assaporare un antica civilta' del vivere. Diciamo cosi' di <<inciampare>> felicemente e fortunatamente in un altro mondo.
(dall'articolo <<Storia e memoria nella Romania del dopoguerra>> di Claudio Toscani)
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